sabato 23 marzo 2024

Cristiano e la mamma frontaliera

 






Fammi vedere quell’occhio?

Cristiano cercò di sviare l’attenzione della madre, svicolando verso la sua camera ma quella donna aveva più fiuto di un cane antidroga dell’aeroporto, forse perché leggeva tutti quei libri di Simenon e Camilleri.

Niente, mamma. Solo un graffio.

Proprio per niente!

La mamma non c’era cascata.

Questo è un livido bello e buono! Hai fatto a botte con qualcuno?

Ma no, mamma. Sì, c’è stata una rissa fuori dalla scuola ma non centro niente, passavo di lì e qualcuno mi è caduto addosso, non è niente…

Domani andrò a parlare con il preside, se le cose non migliorano alla fine dell’anno cambi scuola!

La madre di Cristiano sapeva essere inflessibile come un mastino, quando addentava un osso, non lo mollava più.

Cristiano era allarmato, non c’era bisogno di arrivare a tanto e poi anche da un'altra parte non sarebbe cambiato niente…

Si era pentito di aver parlato ma era troppo tardi. Sua madre aveva taciuto, riflettendo sulla portata di quell’affermazione. Poi aveva abbassato il tono.

Quindi è quello che penso, sei tu che ti porti addosso la causa di queste risse?

Ma no, mamma. Io non c’entro.

Troppo timido, troppo poco credibile.

Ora devo prepararmi e andare. Domani avrò il giorno di riposo e ne parliamo. La pasta gratinata è in forno, scalda venti minuti a centoquaranta gradi. Metti quella roba sporca che hai addosso in lavatrice e togli i fazzoletti di carta dalle tasche che fanno un casino. Vai a dormire presto e chiudi bene la porta.

Lo so, mamma. Lo so… tutte le volte che era nervosa, la donna gli ripeteva la stessa litania come quando aveva undici anni e lei aveva iniziato quel lavoro oltre confine che le imponeva un’ora di viaggio e il rientro a casa alle tre del mattino.

Quel maledetto lavoro, causa di tutti i suoi problemi.

Cristiano ora di anni ne aveva quattordici. Aveva un mazzo di chiavi tutto suo e tutte le sere che sua madre lavorava, lui era costretto a cenare da solo. Odiava la televisione, tutte stronzate, qualche programma furbo ma a ore assurde, lui la mattina si alzava presto e aveva mezz’ora di metro per arrivare a scuola.

Già. La scuola.

Un istituto tecnico dall’altra parte della città dove lui sperava di non conoscere nessuno, di essere lasciato in pace ma dove si era portato dietro, suo malgrado, un manipolo di cretini delle medie, che invece lo conoscevano e sapevano tante cose su di lui.

Che cosa faccio, le dico la verità? Chiedeva disperato verso la radio accesa, ma il conduttore lo aveva bellamente ignorato e aveva continuato a raccontare di quando Chet Baker era stato in Italia all’inizio della sua travagliata carriera e non considerava per niente il problema di Cristiano.

Stare da solo non gli pesava. C’era abituato e ascoltava musica, il jazz gli piaceva, metteva addosso una specie di malinconia che tanto bene s’intonava alla sua solitudine. Quel suono triste gli rendeva più leggera la sua di tristezza. Qualche volta studiava anche ma non quella sera. L’occhio faceva male e non aveva idea di come avrebbe affrontato la madre il giorno dopo.

Quando lei rientrò, come al solito a notte fonda, lui era ancora sveglio.

Aveva passato le ore a costruire discorsi immaginari e a fantasticare quanto storte sarebbero potute andare le cose.

Ma le cose non andarono storte.

Cristiano, cosa c’è che non va in te? Perché non puoi vivere in pace, fare le tue cose, studiare, essere un ragazzo allegro?

Cristiano non se la sentiva di confessare, dire alla madre che i compagni si burlavano di lui, che avevano sparso la voce, e ora tutta la scuola ne parlava, che sua madre lavorava in una casa d’appuntamenti poco distante dal confine, che forse era lei stessa una prostituta, viveva di notte e che addirittura qualcuno dei docenti era stato suo cliente. Cristiano aveva il suo daffare a cercare di ignorare le malelingue, le offese, gli insulti ma ogni tanto cedeva alle provocazioni e finiva in presidenza o nel bel mezzo di una rissa.

Il tuo lavoro… ma si era morso la lingua.

La madre che non era una stupida, cercò di abbracciare suo figlio ma Cristiano scappò a rintanarsi in camera.

La sera cenando, lei provò a parlargli, a rassicurare quel figlio ma lui non era più interessato. Quello che fai tu della tua vita non m’interessa, avrebbe voluto gridarle, a scuola ci vado io e devo starci io tra quelli! Ma non disse niente, perché è questo che fa un adolescente. Vive nel suo mondo circondato da fossati e da alti muri e non ha nessun piacere quando un adulto cerca di farvi ingresso.

Dopo cena, la madre entrò in camera. Cristiano ascoltava la radio, un pezzo di John Coltrane aleggiava nella stanza.

Ti ho portato un regalo dalla Svizzera.

Cristiano la guardò stupito. Tutto si sarebbe aspettato quella sera ma non un regalo.

Aprì la confezione e dentro c’era una tromba. Vera, luccicante, squillante.

 

Lui non sapeva come reagire.

Mi sono informata, c’è una scuola di musica qui vicino. Puoi cominciare quando vuoi, se ti va.

Ecco, che in un attimo tutto era stato portato via, spazzato da un vento potente come foglie da un viale. I compagni crudeli, gli insegnanti indifferenti, il preside severo, gli oltraggi, le risse e le offese.

Tutto.

Sua madre lo capiva certo molto meglio di quanto facesse lui stesso.

Sarebbe andato a iscriversi. Non chiedeva altro. La sua musica lo avrebbe seguito e accompagnato e non solo dalla radio.

Avrebbe reso tutto più dolce, forse malinconico ma dolce.

Toccò i tasti della tromba e dalle dita un calore gli si diffuse fino al cuore.

E senza che se ne accorgesse si lasciò abbracciare.

 

 

 




lunedì 18 marzo 2024

Quattro amici

 





Eravamo quattro amici al bar… Giuseppe canticchia la vecchia canzone.

Chi mi passa il menù… chiama a gran voce Ennio.

Tanto ordini sempre la solita diavola… scherza Donato.

Stasera mi tracanno una media… il colmo della trasgressione di Loris.

Quattro amici seduti al tavolo di una pizzeria. La scena tra le più comuni del venerdì sera, pensa la ragazza preposta ai tavoli.

La graziosa biondina, avrà massimo ventidue anni, si avvicina col sorriso ammaliante della venditrice e propone variazioni al menù, anzi si sforza di aiutare quelle cariatidi, che senza dubbio dimenticheranno tutto quello che dice, appena lei avrà terminato la frase, portando loro una lavagnetta. Carpaccio di pesce, polpo scottato, tagliata di vitello, lasagne e carbonara.

Troppo complicato per i vecchietti e, infatti, scelgono quattro pizze. Vabbè, sono taccagni, alla mancia neanche ci spera, prende le ordinazioni a memoria e si allontana un po’ delusa.

Belli i pantaloni aderenti della ragazza, osserva Donato da gran marpione.

Ma se ha l’età di tua figlia… lo rimprovera divertito Giuseppe.

Anche il pizzaiolo ha due bei bicipiti… osserva con malizia Ennio.

Non facciamo tardi che domani mi alzerò presto, chiede Loris, già sapendo che non sarà ascoltato.

Già ci hai trascinati in pizzeria prima delle venti, non si può sentire, a quest’ora hanno appena acceso il forno… si lamenta Ennio.

La prossima volta il locale lo scelgo io, conosco un posto che ha anche i privé… Donato non scherza, è stato frequentatore di locali trasgressivi.

Io non ho tanti soldi da buttare, va bene la pizza… si accontenta Giuseppe, dicendo tra l’altro, la verità.

Cosa ci fanno questi quattro assieme, si chiede la cameriera, notando senza particolare fastidio come uno dei quattro le abbia studiato a lungo il culo. Porta da bere, le solite due medie rosse, un litro di vino e una frizzante, almeno uno dei quattro è sobrio.

Dovrebbero essere tutti sobri e a dieta, pensa la ragazza, un paio si avvicineranno ai cinquanta e gli altri due li hanno superati abbondantemente…

E, infatti, la chiacchierata volge rapidamente su argomenti di salute, così cari alle persone di una certa età.

Tranquilli. Io trombo ancora con regolarità. Il problema è il menisco, non posso metterci il peso e mi tocca farlo su una gamba sola… recita Donato.

Sei un buffone, non lo farai da sei mesi! Lo rimbrotta Giuseppe.

Guarda, anche ieri sera, ti posso raccontare dei numeri…

Beato te, io con la mia prostata… aggiunge laconico Loris.

Senza contare che con trecento di colesterolo sei più vicino all’infarto che all’orgasmo! Lo sfotte, Ennio.

E poi, cose se non bastasse, mi sono trovato un urologo con delle enormi mani da zappatore… Mandiamoci Ennio che lo facciamo felice! Aggiunge Donato.

Sì, ragazze, vi prego, datemi il numero che prenoto… termina Ennio.

Quattro tipi che più diversi non si può, tuttavia al tavolo regna allegria e anche la giovane cameriera si avvicina volentieri a chiedere come va.

Continuano a prendersi poco sul serio, a sfottersi e sanno che il gioco funziona perché l’equilibrio è forte come la voglia di passare assieme una serata leggera.

Qualcuno ha creato un gruppo di chat per l’occasione e poco prima di trovarsi al tavolo hanno già condiviso centinaia di messaggi ambigui, barzellette osé e vignette sconce. Le birre medie sono rinnovate e il vino scorre così come scorre lieve la serata.

Quattro dolci? Ma certo tesoro, risponde lesto Donato che ancora sbava verso il posteriore della ragazza, che ci facciamo negare il meglio?

Tutti prendono il dolce e pagano un conto salato ma escono soddisfatti e sazi.

Prima di separarsi nel parcheggio però, notano un oggetto.

Tra i tavoli di un dehor c’è un biliardino o calcio balilla, che dir si voglia!

Poiché i nostri cinquantenni, il ventennio non l’hanno vissuto, fortuna loro, il nome è indifferente. Ciò che conta è trovare le monete per la gettoniera.

Da una parte Ennio e Loris e dall’altra Giuseppe e Donato.

La strategia è semplice, stai in porta tu che io lì sono una pippa!

Il gioco è frenetico, la fascinazione per quel gioco li rapisce e li sposta indietro nel tempo.

Ecco quattro dodicenni che non hanno altro interesse che veder entrare la pallina nella porta avversaria.

Prendi questa stangata, femminuccia!

Ehi, il gancio non vale!

Ma tu prima hai rullato…

Goool!

È tutto un volare d’imprecazioni, grida, esultanze e gioia!

Passa una famiglia e i bambini si voltano a guardare quei quattro strambi che vociano e s’insultano senza ritegno attorno a quel vecchio gioco.

Giuseppe pensa davvero di avere dodici anni e per un momento si sente felice.

Poi le palline finiscono, c’è un mescolarsi di manate e abbracci.

Ci si vede stronzi, grida Donato emettendo un rutto al gusto di vino.

Ciao bambine, ci prova come sempre Ennio, cercando di portarseli dalla sua parte.

Si è fatto tardi, si lamenta il sonnolento Loris che vorrebbe essere andato a dormire almeno un’ora fa.

È stata una bella serata, dice Giuseppe, grato a quella strana compagnia per averlo fatto sentire un ragazzino, anche se per pochi minuti. Dobbiamo ripetere.

Vanno ognuno verso la propria auto e spariscono presto, inghiottiti dal buio della notte ma lievi e spensierati.

Si ritroveranno, certo, ma chissà se li aspetterà un oggetto magico, capace di farli viaggiare nel tempo, come quello di stasera.

 

 




sabato 9 marzo 2024

Boris e Giulio

 





Terminare l’università non era stato poi così magnifico.

Certo, i festeggiamenti, le foto con la coroncina d’alloro, lo spumante economico stappato all’uscita dell’ateneo al termine della discussione, la festa in famiglia corredata da regali e mance e tutto il resto, furono splendidi momenti.

Il problema era che ora non c’erano più alibi, ora si smetteva la veste dello studente e s’infilavano pantaloni da uomo.

Sin ora c’erano stati vari lavoretti per Giulio, aiutare nelle spese universitarie la sua famiglia e avere un po’ di contante in tasca il fine settimana erano obiettivi ammirabili, anche se la maggior parte dei fine settimana Giulio li aveva passati appunto, lavorando.

Adesso tutto era diverso, la qualifica di dottore davanti al cognome lo metteva sopra lo status al quale era appartenuto fino a un mese prima e gli regalava prestigio (poco) e responsabilità (tante).

In soccorso, non per la prima volta nella sua breve vita, si era presentato suo cugino Boris.

Boris, solo tre anni più vecchio, era da poco andato a vivere nell’appartamentino, eredità dei nonni e aveva proposto a Giulio una convivenza con un certo opportunismo ma quantomeno vantaggiosa per quest’ultimo.

Nella grande città nascono le opportunità, trasferisciti da me, conosci gente, parla con le persone giuste, capisci quali strade percorrere e appena potrai mi aiuterai con le spese.

La proposta di Boris era sincera, c’era sempre stata simpatia e affetto per il cugino che viveva in periferia e così Giulio la accettò con la benedizione di tutti i parenti.

La metropoli era smisurata e spaventosa, ma un giovane neolaureato non ha paura di niente e così Giulio iniziò a frequentare locali pubblici, librerie, eventi culturali e manifestazioni, tutti i posti in cui aveva fiducia di incontrare qualcuno che desse un tocco di concretezza all’invio di curricoli e alla compilazione di Form attraverso i quali l’unica cosa evidente era la sensazione di lanciare messaggi in bottiglia in un oceano popolato solamente da squali che non sanno nemmeno leggere.

 

 Poi iniziò il periodo delle grandi manifestazioni. Studentesche, operaie, di alcuni settori del trasporto, dei contadini. Giulio aveva preso a partecipare nonostante i dubbi di Boris.

Non andare oggi in centro, gli consigliava durante la colazione delle sette con tè e fette biscottate.

C’è tensione, oggi meglio evitare, ma Giulio andava ugualmente.

Giulio, che non era uno stupido, stava attento ai particolari, un certo puzzo di fumogeni, certi cori da ultras che poco o niente c’entravano col dissenso e con la causa, certi fischi della polizia che coordinavano magari una carica. Era pronto a defilarsi in viuzze laterali e spostarsi dal fiume di persone vocianti che spingeva e ti costringeva a finire in trappola. Una volta si era riparato in un negozio fingendo interesse per la merce esposta e restando in equilibrio tra i territori della pavidità e della saggezza.

Una sera Boris gli chiese:

Giulio, come sei messo? Hai ricevuto risposte o appuntamenti per qualche colloquio?

Giulio chiese se per caso gli zii avessero espresso lamentele per il nipote che non trovava un’occupazione seria.

No, non è questo. Sì, i miei non fanno che lamentarsi di tutto, compreso il fatto che non trovi lavoro ma siccome dipende da me tu puoi stare qui tutta la vita.

Grazie Boris, so quanto mi vuoi bene, ma sappiamo entrambi che non starò qui con te per sempre. Entrambi dobbiamo avere una vita autonoma ed io in ogni caso alla fine me ne andrò.

Giulio non si faceva sconfortare ma i tempi dilatati erano un problema.

Così Boris ci provò:

Perché non mandi una domanda alla segreteria del mio ufficio? Potrei parlare col responsabile del personale…

Giulio non lo fece finire. Ma tu lo sai che lavori per un partito politico?

Certo, se non altro sono laureato in scienze politiche!

Non faceva una piega.

Giulio fece un sorriso amaro, immaginava già che non sarebbe finita bene.

Dopotutto è un lavoro, non pagano male. Ti si aprirebbero grandi opportunità, i tuoi sarebbero felici e anche i miei smetterebbero di lamentarsi.

Giulio fece per aprire bocca ma restò un momento in silenzio. Non voleva ferire Boris, gli doveva tanto. Così partì da lontano.

Vedi cugino, se un perfetto idiota, per qualche misterioso motivo è dotato di grande loquacità e di potenti capacità affabulatorie e si dimostra in grado di affascinare e ipnotizzare grandi masse e grazie a questa caratteristica, scala la gerarchia politica, elezione dopo elezione, fino a sedere sulla poltrona di un ministero, di certo avrà decine di stretti collaboratori nel suo dicastero, centinaia di dipendenti nello staff, Migliaia di sostenitori nelle sedi territoriali di partito, oltre a centinaia di migliaia di onesti lavoratori del settore governato dal suo ministero.

E quindi? Era stato il curioso commento di Boris che non capiva dove volesse arrivare Giulio.

Inevitabilmente, tutto quest’oceano di persone produrrà azioni positive, legate alle proprie personali competenze, all’onestà intellettuale, all’amore per la propria professione, all’attaccamento al lavoro, a un’etica personale e così via. Tutte queste persone produrranno nella maggior parte dei casi esiti positivi, soluzioni creative e innovative, e contribuiranno con i loro sforzi al buon andamento della società, giusto? Ma non possiamo dimenticare una cosa. Un idiota rimane tale, anche se siede sulla poltrona del ministro!

Ecco, alla fine era sbottato. Boris fece una strana espressione tra il triste e l’amareggiato.

Dopo diversi minuti di silenzio e riflessione rispose solo:

Sì, è meglio che non la fai quella domanda al mio ufficio, magari domani ne riparliamo, ora vado a dormire, e si ritirò.

 

Un mese dopo quella sera Giulio era tornato a casa. Dopo contatti telematici era riuscito a trovare impiego in un’agenzia assicurativa, avrebbe vissuto nella sua vecchia cameretta di studente ma avrebbe avuto autonomia economica.

Boris fu triste e lo abbracciò forte, mi dispiace cugino mio, che tu non abbia trovato il tuo posto qui in città, vicino a me, lo so che non cucino bene ma c’è sempre il sushi all’angolo.

Risero per non piangere. L’abbraccio fu sincero come l’affetto che li legava, ma Boris era anche sollevato. L’aspetto intollerante, inflessibile, contestatore e in potenza sovversivo del cugino lo aveva sempre spaventato e fu contento che potesse partire senza avere combinato danni.

Giulio era sereno, come il giorno della laurea.

Certo, fare l’assicuratore non era il suo sogno ma gli avrebbe permesso di muoversi e incontrare persone, parlare con tutti, scambiare idee.

Nessuno aveva chiesto altro che le sue competenze culturali, non sarebbe sceso ad alcun compromesso.

No, non era il suo sogno ma per iniziare andava bene così.

 

 

 

 

 


sabato 2 marzo 2024

Il tè di Angelo

 





Angelo spinge il pesante portoncino e entra nell’androne con una smorfia di dolore.

Da qualche anno nessun inverno è arrivato senza torturare le sue giunture.

I singhiozzi che giungono dal primo piano lo spiazzano. Avrà anche tanti acciacchi ma le orecchie funzionano ancora bene. Qualcuno piange sulle scale.

Angelo, un gradino dopo l’altro, trascina il suo carrello pesante della spesa di Natale per una persona. Tortellini di zucca, un chilo di patate, del cavolo nero, due etti di Toma e, altra concessione alla gola, un torrone morbido. Adora il gusto delle mandorle e del miele e poi è Natale, avrà il diritto di gustare un dolce, no? Ma adesso è la curiosità a condurlo. Sale veloce, nonostante i dolori e il peso del carrello e sul pianerottolo di fronte casa sua c’è un giovane uomo accovacciato sullo zerbino, che si asciuga il viso. Quando vede l’anziano salire verso di lui, si rimette in piedi e cerca di darsi un tono.

-Buon giorno Angelo.

Angelo per un momento è confuso, poi ricorda. Si tratta del figlio del ragioniere al secondo piano.

-Tu sei il figlio dei Guida, aspetta… Mirco!

-Si, giusto, sono io. Il ragazzo tira su con il naso. Angelo gli porge un fazzoletto.

-Va tutto bene?

-Si, signore, è tutto ok… La voce incerta del ragazzo dice il contrario.

-Sei venuto dai tuoi per passare le feste? Angelo sa che intromettersi nelle vite altrui non è educato ma non importa, ha sentito piangere il ragazzo e certe volte guardare da un'altra parte è peccato.

-Sono venuto a fare loro gli auguri…

-E cosa fai fuori dalla porta?

-In casa dai miei non c’è nessuno.

-Vieni dentro. Ti preparo un tè.

Mirco vorrebbe opporsi ma non trova le forze e alla fine segue il vicino nel piccolo appartamento pieno di quadri.

Quando si siede sul vecchio divano, ricomincia a piangere.

Angelo non si scompone. Mette il bollitore sul fornello e ripone la spesa. Il silenzio è leggero. Mirco si prende il suo tempo.

Quando il tè è pronto nelle tazze fumanti, il ragazzo è calmo.

-Ti scalderà. Puoi restare quanto vuoi, non ho impegni. Gli dice Angelo con sincera allegria.

Mirco pensa che quel vicino, che ha sempre visto poco e non gli ha quasi mai rivolto la parola se non per saluto, è grazioso e piacevole. Quanto gli piacerebbe che fosse suo nonno. Si vergogna un poco ma l’anziano ha un atteggiamento che lo fa sembrare un ragazzo di vent’anni. Non lo aveva notato mai nei loro incontri precedenti. Dopotutto i vicini non sono fatti per essere conosciuti, al massimo si salutano ma poi ognuno a casa sua. Questo era stato l’esempio dei suoi genitori e così aveva fatto lui da adulto. Anche quando era andato a vivere con il suo compagno di studi storico. Mirco sapeva che non sempre i genitori sono perfetti. Per esempio, quando lui aveva troncato il rapporto con la sua ragazza, che non lo rispettava, non lo aiutava e soprattutto non lo amava i suoi non avevano accettato la cosa. Secondo suo padre lui avrebbe dovuto salvare la relazione e adeguarsi all’indole della fidanzata che era di buona e facoltosa famiglia. La ribellione di Mirco, perché così era stata definita, aveva provocato una rabbiosa e violenta reazione dei genitori e lui ne era stato sorpreso.

-Hai provato a chiamare?

-Si ma devono essere partiti per la montagna e lì il cellulare prende poco.

-Puoi sempre raggiungerli col treno. Angelo cerca di essere accomodante, è pur sempre Natale e quel ragazzo non è il ritratto della gioia.

-Non lo so, non mi hanno neppure avvisato che sarebbero partiti. Ultimamente ci siamo sentiti poco.

Mentre cerca di non scottarsi, Mirco ha tutta l’aria di uno che sta per vuotare il sacco.

-I miei sono arrabbiati con me, non mi perdonano di avere lasciato la mia ragazza e poi di aver subaffittato una stanza dell’appartamento a un altro studente.

-Che male c’è in questo, si fa tra universitari, no?

-Si… ma il problema è che si tratta di uno studente Siriano.

-Perché problema?

-Lei conosce mio padre, no? Sa come la pensa.

Angelo conosceva bene il ragioniere.  

-Inoltre dovrei dirgli una cosa, ma non ne ho il coraggio…

-Ti ascolto. Angelo poggia la tazza vuota sul tavolino e si mette comodo sulla poltrona.

Forse è per l’atteggiamento accogliente del vecchio, per la sua tranquillità, per la sua apertura, che sono le cose di cui Mirco ha bisogno ora, che il ragazzo si concede di parlare.

-Ho lasciato la facoltà di Ingegneria, voglio iscrivermi a Lettere.

Lacrime bagnano gli occhi del ragazzo.

-Quando lo saprà mio padre, darà di matto…

Angelo sospira, è un bel problema. La vita del ragioniere Guida è una vita perfetta, un uomo realizzato, sportivo, un lavoro invidiabile, una bella moglie che ha ereditato dalla prozia la casa in montagna, Il mare d’estate e lo sci d’inverno, il Rolex al polso e un figlio universitario che diventerà dottore.

Il silenzio che riempie la stanza è saturo di significati.

-La vita è tua, Mirco. Fatti un regalo di Natale, parla con i tuoi e usa la sincerità che è l’unica strategia vincente.

Mirco è più tranquillo, si soffia il naso e termina il suo tè. Il suo cellulare emette un breve suono, un sms.

-È mia mamma, vuole sapere come sto, cosa faccio.

-Prendi un bel respiro e se vuoi, rispondile. Angelo si alza per rigovernare ma in realtà è un gesto di discrezione.

-Farò come mi consiglia, li raggiungerò col treno. Ma non oggi. Magari tra due giorni. Tornerò nell’appartamentino e giocherò a scacchi con lo studente siriano, è un tipo intelligente, sa?

-Non lo metto in dubbio. Voi giovani siete avanti e ho molta fiducia nel futuro.

-Grazie Angelo, lei è stato un vero regalo di Natale.

Angelo gli stringe la mano.

-No Mirco, sei tu un regalo per me che vivo solo. Vieni a trovarmi quando vuoi e fammi sapere come vanno gli studi.

-Lo farò, grazie.

Si gira e se ne va.

Angelo torna alla sua stanza vuota e alla sua cena solitaria da preparare.

E ai suoi ricordi e ai suoi pensieri.

Uno su tutti.

Grazie a te, ragazzo mio, te la caverai nonostante tuo padre. E mentre cucina, sorride.

 

 

 



sabato 17 febbraio 2024

Verrà la primavera

 





Sono passato di recente davanti una vetrina in centro.

Pastelli a cera, pennelli di tutte le misure, colori assortiti, tele e tavolozze.

Una bella vetrina, nessun dubbio. Sono rimasto colpito dalla bellezza dei quadri esposti e dal fascino che esercita una tela bianca ma anche spaventato dal prezzo della merce esposta.

Dopo un rapido calcolo ho capito che dipingere richiede un capitale.

Scrivere è un’arte povera e democratica.

È un’arte povera perché sono sufficienti una biro e il retro di uno scontrino o un tovagliolo, come il passato e i grandi dimostrano. Non è neppure necessario un pubblico di lettori.

Scrivere significa chiudersi in uno stanzino, dare le spalle a chiunque.

Si scrive non guardando niente, guardando solo dentro di sé o al massimo verso la parete. Nessuna finestra a distogliere la concentrazione, al limite una musica che via via si fa più distante fino a provenire da un altro mondo.

È un’arte democratica perché si può fare utilizzando un Mac Book Air oppure digitando su un vetusto smartphone. Se mi gira, posso tirare fuori matita e blocco notes come facevo alle medie. Si può scrivere anche con pochi mezzi, economici.

Conclusa questa strampalata premessa, la questione è sempre e solo una. Cosa scrivere e che cosa dire. Perché si sa, quando non si ha niente da dire, è molto meglio stare zitti.

Ecco che si fa avanti il primo grande requisito.

L’ispirazione.

Si scrive solo se si ha l’idea, se si è folgorati dal sacro fuoco della passione, se si brucia d’amore, se si è infuriati, se ci si strugge per qualcosa d’irraggiungibile.

Si scrive quando c’è la tensione giusta a farlo, perché è una necessità quanto respirare e bere. Il respiro delle frasi lette, l’acqua dei concetti da bere e assimilare.

Ma anche la scrittura più semplice ha bisogno di lavoro, di pulizia, di revisione, di rilettura.

E questo ci porta al secondo altro requisito fondamentale, che è il tempo.

Avere un ordine mentale è importante ma non è sempre semplice come non è semplice riuscire a stabilire le priorità.

E anche quando si riesce, non è detto che le proprie priorità siano le stesse di altri.

Quindi, dal momento che è importante curare la propria persona, tenere pulita la casa, accertarsi che ci sia cibo in sufficiente quantità e apprezzabile qualità, ecco che l’importanza dello scrivere si abbassa e cede il passo nella classifica come una squadra di seconda categoria.

Tutto il mondo fatto di sensazioni e colori, di momenti che stimolano l’ispirazione, di percezioni che svegliano i sensi, sbiadisce e appiattisce davanti ai bisogni primari come fame, sete e sonno, piacere agli altri, fare una vita sociale.

Una folata improvvisa di vento che solleva le foglie sul viale, il canto di un uccello tra i rami, le risate cristalline dei bimbi che corrono nel parco, il ripetersi costante e potente delle onde che si rompono sugli scogli, insomma gli eventi che ci incantano e che riempirebbero pagine di poesia, passano in secondo piano e non sono raccolti.

Ci sono altre cose prima.

Ma una parte profonda dell’animo, una parte molto intima che non dorme mai, che non si manifesta, è sempre attenta e memorizza gli attimi, li congela intatti, pronti a essere rivissuti in tutto il proprio intenso fragore.

È questa parte che dobbiamo riguardare, tenere sana e in forma, coccolare forse.

Pensare come penserebbe un animale, guardare le cose come le guarda un bambino, con lo stesso candore, con innocenza, senza giudizio o contaminazioni, senza cattiveria o preconcetti.

E questo ci porta al terzo fondamentale requisito, forse il più importante. L’onestà.

Scrivere per dare un giudizio di valore, per esprimere un’opinione, per indirizzare quella altrui non è arte, è lavoro. Si può diventare molto bravi a farlo ma occorre essere ben pagati. Non si può trarre piacere da questa scrittura. Un’opinione conta quanto un’opinione, lecito esprimerla ma non sarà mai un fatto.

Sono altre le caratteristiche della scrittura che danno piacere, che la trasformano in arte.

L’onestà è una di queste, e dall’onestà trascende la bellezza.

Rimango un momento, come inebetito dal monitor, come se fossi una falena, poi mi risveglio e comprendo che tra poco più di un mese sarà primavera, il vento sarà dolce e smetterà di ferire le guance, la luce durerà fino a tardi e il profumo della natura riempirà l’aria.

Nel frattempo non resta che affidarmi alla dolcezza della lettura e al piacere di riconoscere, quando lo trovo, un autore prima di tutto onesto.

 

 

 

 


sabato 10 febbraio 2024

La spia sul cruscotto

 





 

Berni stava disteso, più pallido del lenzuolo stesso, con le guance incavate e gli occhi chiusi. A guardare bene sembrava avere le palpebre appena separate, come chi dorme profondamente o chi è morto.

In effetti, sembrava di guardare un morto.

Stefano rabbrividì a quel pensiero, ma non avrebbe saltato un appuntamento con il suo amico o almeno quel che restava.

Il vetro della rianimazione era pulito, come tutto il resto, Stefano ci aveva appoggiato il palmo della mano ma Bernardo non poteva muoversi, non avrebbe potuto farlo nemmeno se non fosse stato in coma, collegato com’era a tutti quei tubi, cavi elettrici, cateteri. Stefano avvertì sulla pelle solo il freddo del vetro e una sensazione di solitudine.

Pensare che ci avevano scherzato sopra solo poche settimane prima.

“Io il dolore lo sopporto benissimo, da uomo, e non è vero quello che si dice in giro, che a noi maschi basti un taglietto sul dito per farci piangere!” Bernardo non ne voleva sapere di ragionare. L’amico provò a convincerlo del contrario, a dirgli che sarebbe stato opportuno farsi visitare, fare degli esami.

“Per diventare una cavia da laboratorio?” Bernardo lo aveva zittito, sull’argomento non c’era discussione possibile. Poi, per dargli un contentino, erano andati alla farmacia sotto casa di Stefano, dove Berni aveva acquistato degli integratori di magnesio e delle vitamine. “Vedrai che con questi, nel giro di due settimane mi sentirò come un leone”.

Stefano ripensò alle parole dell’amico e quasi sorrise da dietro il vetro.

Un leone attaccato a un respiratore.

Stefano aveva anche provato con una similitudine.

“Avevo una vicina, un giorno sulle scale mi disse che era comparsa una spia sul cruscotto dell’auto, che tipo di spia le chiesi e lei mi aveva risposto, non saprei, gialla con un disegnetto nel centro, allora le avevo consigliato di portare subito l’auto in un’officina meccanica ma lei aveva obiettato che l’auto girava bene e non faceva alcun rumore strano. Dopo una settimana, incrociandomi sulle scale di casa, mi aveva confessato, vergognandosi molto, di aver fuso il motore, che aveva dovuto chiamare il carro attrezzi e le sarebbe costato un patrimonio riparare il danno. Voleva scusarsi con me per non avere dato credito al mio consiglio”, Stefano e Bernardo erano amici dalle elementari e Berni era stato sempre un testone. Probabilmente ci avrebbe anche riflettuto ma la vecchina della farmacia aveva cancellato ogni possibilità.

Erano in coda, Bernardo con la scatola dell’integratore al magnesio in mano e il suo dolorino da niente tra le costole, quando sentirono lo scambio tra la vecchina e la dottoressa.

“Avrebbe dei fermenti lattici per la mia pancia? Mi dia quelli forti per favore.” Era stata la richiesta della vecchina.

La farmacista le aveva mostrato due scatole uguali: “Vuole questa da due miliardi o quella da quattro miliardi?”

“Non sono un po’ troppo cari?” Era stata la risposta seccata della signora alla quale Stefano e Bernardo non erano riusciti a fermare le grasse risate che erano continuate sin fuori del negozio. Il buonumore aveva cancellato la drammaticità e l’efficacia del racconto sulla spia e sul motore fuso.

In fondo il dolore è proprio una spia sul cruscotto, che ci sta avvisando che qualcosa non funziona come dovrebbe o che si sta per rompere, pensò Stefano da dietro il vetro.

L’ora delle visite, se di visita si potesse parlare, era quasi terminata e fu in quel momento che Stefano si accorse che la sua similitudine si stava realizzando. Sul monitor che registrava le funzioni cardiache e pressorie dell’amico, due lucine rosse avevano iniziato a lampeggiare, un infermiere era corso a controllare, aveva manovrato con i rubinetti che erogavano sostanze nelle vene dell’amico e tutto era rientrato.

Dopo un po’ l’infermiere in casacca verde era uscito dalla porta e aveva avvisato che il momento delle visite era terminato. Rientrando poggiò una mano sulla spalla di Stefano e andò via senza dire niente.

Perché non c’era niente da dire.

Stefano guardò un ultima volta il corpo del suo amico, che sembrava morto. Forse era un addio ma forse no, chi poteva saperlo.

Finché le lucine sono verdi, va tutto bene, si disse Stefano e non sapendo se sorridere o piangere, andò semplicemente via.






sabato 27 gennaio 2024

Il mare in burrasca

 





Una volta ho letto da qualche parte che ogni barca, su acque tranquille, ha un buon capitano.

Non ricordo chi l’ha detto o scritto ma è chiaro cosa intendesse.

Navigo sulla mia barca da tanti, forse troppi anni e di posti ne abbiamo visitati.

Porti tranquilli, con lavoro da sbrigare, carico e scarico, manutenzione e altre normali attività. La sera una bevuta di vino scadente nella taverna più vicina e via, senza ricordare cosa si è fatto, cosa si è visto.

Luoghi più bizzarri e affascinanti, dai profumi forti e i colori accesi, posti con uccelli dalle piume variopinte e predatori letali, posti che ammaliano. Qualcuno ci si è perso, inghiottito nei vicoli chiassosi tra giocatori di carte o tra le braccia di qualche avvenente ragazza dagli occhi verdi.

Posti pericolosi, in cui appena messo piede sulla terraferma, sai che sta per succedere qualcosa di brutto. Posti dove è meglio non camminare soli, in cui nelle locande avete tutti gli occhi addosso e il taverniere è perennemente impegnato a lucidare la lama del suo coltellaccio, posti su cui è meglio non indagare, non addentrarsi, dove è più prudente passare la notte sulla branda della barca o nella stiva, posti in cui non ci si addormenta facilmente e il consumo di alcool è indispensabile al sonno.

Ho viaggiato tanto su questa vecchia imbarcazione e qualche volta non ce la siamo vista bene. Giornate fiacche, senza vento e notti in cui scendeva una nebbia spessa e le onde nere sembravano muri di una fortezza. Notti in cui ci sembrava di tornare in dietro al punto di partenza e di navigare in tondo.

Ho fatto viaggi che sembravano non finire mai, con la sensazione di perdere continuamente la rotta e di avere tutte le bussole fuori uso. Viaggi in cui il capitano era ubriaco quasi tutti i giorni e quando non lo era se ne stava rintanato in cabina a smaltire i postumi. Viaggi che abbiamo portato a termine solo grazie all’esperienza di uomini di mare, alla forza di volontà di qualcuno e, perché no, anche grazie alla disperazione.

Non è facile vivere su una nave, vi assicuro, non per la nausea che il mare grosso vi ficca nelle viscere col suo muoversi su e giù, a quella ci si può abituare, non perché avete visto il mozzo finire in acqua per un’onda improvvisa e sparire per sempre in quel nero gelido, dopo un po’ ci si abitua anche ai funerali, non è mai facile ma sapere che si è governati da qualcuno che è sempre ubriaco, a volte corrotto, spesso fuori controllo, questo è peggio.

Fa paura lasciare un porto sicuro e dirigere la prua in mare aperto, non sapendo cosa ci sarà ad aspettarci nella notte.

Si è costretti a fidarsi, perché non c’è scelta, fidarsi degli altri marinai, dell’onestà di qualcuno, della scaltrezza di altri, dell’esperienza di tutti, perché è quella che vi salverà.

Una notte, eravamo stati svegliati dalla campana della vedetta, all’arrivo di una bufera e in meno di cinque minuti la barca era stata presa a schiaffi da un mare arrabbiato e cattivo che avrebbe voluto rovesciare quel vecchio guscio e spingerlo in profondità, nell’abisso. Così, in piena notte, schiaffeggiati da una pioggia fredda e dura, sballottati da onde maligne, eravamo stati costretti a governare una nave che per poco non era stata spezzata dalla violenza della natura, tutti urlavano per farsi sentire ma il ruggito del mare era più forte e spaventoso, il capitano lanciava insulti e sputava bestemmie ma era chiaro che non riusciva a comprendere quale fosse in problema da affrontare, qualcuno gli ruppe una bottiglia sulla testa e questo fu il momento in cui tutti cominciarono a fare le cose giuste. Mi trovai al centro di quella specie di ammutinamento, in tanti mi chiedevano consenso a fare ciò che già sapevano fare, fui continuamente cercato, con le voci, con le braccia e con gli sguardi. I marinai avevano bisogno di un riferimento ed io trovai naturale prestarmi a quella necessità.

Certo era che anch’io morivo dalla paura di non farcela. Nessuna nave dovrebbe cambiare timoniere durante una bufera, certe cose vanno pianificate, ma a volte se vuoi salvarti, devi fare delle scelte e devi farle veloce.

Quella notte la nostra velocità di pensiero e di azione ci salvò la vita e al mattino guidai la nave verso il porto più vicino. Il capitano aveva una vistosa ferita alla testa e diceva di non ricordare niente. Si chiuse in cabina e uscì solo quando eravamo sbarcati tutti. Non si fece più vedere e questo fu un bene per noi tutti ma soprattutto per lui.

Quanto a me, continuo a navigare, non saprei fare altro, e affronto a testa alta la brezza profumata del mattino e il vento di tifone con lo stesso animo sereno. Perché è questo ciò che i marinai si aspettano, non la paura, non l’incertezza, ma sapere la rotta che percorreremo e specchiarsi in uno sguardo fermo e sicuro.

So che non sarà mai facile, che le tempeste arrivano senza invito ma quello che cercherò di fare è governare quest’imbarcazione meglio che posso e condurla ogni volta in un porto tranquillo.